Oggi vorrei introdurre una tematica difficile, perché essendo molto semplice si tende a complicarla per renderla inaccessibile ai più. In questo caso: alle più.
Il mondo contemporaneo, quello della parità di genere per le opportunità, è molto recente. Talmente recente che siamo ancora in viaggio.
Siamo ancora considerate solo fattrici, madri, mogli, figlie.
Siamo ancora chiamate per nome di battesimo e non per cognome e ruolo, siamo ancora le compagne di qualcuno.
Le donne hanno iniziato ad esprimere dissenso e richiedere gli stessi diritti degli altri esseri umani, gli uomini, a partire da fine ‘800 impersonificate dalle suffragette in Inghilterra e poi in altri paesi.
Essendo la società diretta dagli uomini, questi non erano ricettivi a condividere il potere, e non le ascoltavano.
Le rivoluzioni si fanno spesso con rumore, perché se non ti ascoltano (o non ti vogliono ascoltare) devi trovare il modo che il sentirti gli sia inevitabile.
Veronica Spora Benini
Le suffragette facevano scioperi della fame, protestavano in eventi pubblici o con manifestazioni, e buttavano anche le bombe artigianali. Non credo che nessuna di noi sia d’accordo col buttare bombe in giro, non si fa.
Per fortuna al giorno d’oggi le nostre bombe possono essere mediatiche.
Una donna che si esprime con pensiero critico, che analizza la società (ancora) patriarcale nella quale viviamo per farci riflettere sulla strada da fare nel percorso di uguaglianza, è percepita come un DISTURBO.
Disturba infatti la quiete dello status quo maschilista che ci ricopre come una nebbia omogeneizzante che moltissimi trovano rassicurante. “Il mondo è sempre stato così” e così vogliamo che continui a girare.
La parità nella percezione dell’uguaglianza fra i generi non esiste ancora: attribuiamo sempre significati e diritti diversi a uomini e donne, etero e LGBTQ+, bianchi e neri.
Ogni differenza è percepita come un attacco diretto che DISTURBA lo stato della loro visione del mondo.
Il fatto di ESSERE diverse in qualche modo e pretendere con giustizia di essere percepite, viste in quanto tali e però aventi pari diritti, opportunità e TRATTAMENTO crea disagio. Dà fastidio.
L’esclusione dalla conversazione, che altro non è il far parte attiva della società, inizia proprio con le parole, con gli esempi, con i modi di dire e le battutine, contribuendo al perpetuarsi dello stato sociale maschile.
E lo facciamo anche noi dicendo frasi che non valutiamo in profondità, come “S’è fatta licenziare, ha preso le botte, gli ha fatto un figliolo”.
Se ci pensiamo, in queste frasi viene spesso aggiunto un verbo che coinvolge la donna nella responsabilità dell’azione, anche se questa è stata soltanto subìta, deresponsabilizzando chi realmente la compie, o la co-compie come nel caso di procreare insieme.
Togliere parola, affibbiare la responsabilità completa di un torto o danno subìto significa una doppia aggressione: è colpa tua e in più non puoi parlare per difenderti, ovvero è come io ti dico che sia, e basta.
PERCHÉ CORSETTY?
Il corsetto, anticamente, era uno strumento di “tortura” e controllo sulle donne: per esaltarne la femminilità si imponeva loro di assottigliarsi la vita, limitando dunque i movimenti, il respiro e, dunque, l’autonomia di ciascuna donna.
Corsetty, all’opposto, rappresenta la volontà di rompere l’usanza di costringere le donne a stare immobili e in silenzio.
I nostri corsi online hanno l’obiettivo di rendere libere le donne arricchendo le loro competenze e la loro autostima.

Ieri ho manifestato il mio dissenso a un brand via messaggio privato, e invece di rispondermi hanno chiamato un uomo presso un altro ente con cui collaboro perché, conoscendomi e avendo il mio numero privato, fosse lui a gestirmi, escludendomi dalla conversazione.
I fatti:
Mi arriva in regalo un oggetto e taggo ringraziando la persona che me l’ha inviato. Non taggo il brand deliberatamente perché non ho nessun rapporto con loro.
Il brand produttore dell’oggetto screenshotta la mia story e la riposta (senza il mio consenso), dicendo che anche la Spora usa il loro prodotto. E mi tagga.
Scrivo al brand spiegando che non ha il diritto di registrare lo schermo per ripostarmi perché:
A) violano il mio diritto d’autore sulla creazione del contenuto
B) mi stanno usando come testimonial senza espresso accordo
Visualizzano, ma non rispondono.
Spiego meglio il mio punto di vista e gli propongo i miei servigi per formarli ed evitare, in futuro, diffide e richieste danno per uso improprio dell’immagine altrui a fini commerciali.
Visualizzano, ma non rispondono.
Non ero stata maleducata: avevo espresso il mio punto di vista e avevo spiegato il perché fossero stati violati i miei diritti, ma essendo donna e usando la mia voce per difendere me stessa, sono andati nel pallone ed hanno chiamato un loro “pari”.
L’uomo “dalla mia parte” mi ha telefonato minimizzando e chiedendomi cosa dovesse dire alla controparte per risolvere amichevolmente.
Era totalmente a suo agio nel prendere in mano l’affare e gestirmi senza il mio permesso, senza avere il minimo mandato di ruolo come agente o portavoce nella mia vita e nel mio lavoro.
Le sue parole verso di me erano leggere, amichevoli, paterne, minimizzanti, liscianti come a “tenermi buona” e “questa cosa la risolviamo qua, non fare scenate, non facciamone un affare di Stato”.
È stato, nella sua totale mancanza e ignoranza di contesto, di un’invadenza e aggressione inqualificabili.
Il tutto, ovviamente, senza rendersene conto e pensando di fare la cosa giusta spendendo il proprio tempo.
Sono certa che sia tornato indietro a spiegare loro come gestirmi comunque.
Il punto è sottile ma chiarissimo, se lo analizziamo: se io fossi stata un uomo tutto questo non sarebbe successo.
Avrei anche potuto scrivere in privato al brand con anche un “Fanculo, cosa state facendo senza permesso?”, e mi avrebbero risposto “Scusi, togliamo subito, la prossima volta chiederemo il permesso”.
Invece sono una donna, ho spiegato come stessero violando il mio diritto d’autore prendendo una mia story senza permesso, e in più usandomi per la promo di un prodotto a fini commerciali, taggandomi come se io fossi d’accordo nel fare la loro testimonial.
Quando mi ha chiamato “l’uomo dalla mia parte”, li per li sono stata assalita da uno stereotipo, e gli ho detto: “Ma chi sei, mio padre?” per correggermi subito dicendogli: “Senti, è una cosa fra me e quei signori, e tu non c’entri. Se hanno paura di rispondere ed hanno bisogno di chiamare qualcuno, è un loro problema.”
Al che ho scritto nuovamente spiegando quanto fosse stato umiliante usare un altro uomo per discutere, escludendomi.
La loro risposta è stata che non intendevano fare niente di sbagliato e che erano in buona fede. Hanno minimizzato.
Disturbata o disturbante?
Una donna che si ribella allo status quo maschile, lo disturba. Ma il senso del disturbo, per autodifesa, viene ribaltato contro di lei, facendola passare per disturbata.
Io non sono una disturbata mentale: a me disturba moltissimo quando i miei diritti vengono ignorati e si dispone della mia voce come se non avessi diritto di usarla.
Veronica Spora Benini
Disturbatissima! E, in quanto tale, rispondo spiegando come funzionano i miei diritti e per esteso quelli di tutte e di tutti, allo stesso identico modo.
DISTURBIAMOCI sempre per usare la nostra voce.
Fierissimamente una #testadiMurgia.
